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mercoledì 22 marzo 2023

Cavalli e cavalieri alla festa di San Marzano

PROTAGONISTA OLTRE ALLA FOLLA

L’ULIVO, IN ONORE DI SAN GIUSEPPE

 

Una festa memorabile in

provincia di Taranto, a cui

partecipano con tutto il

paese i centri vicini.

Una montagna di legna per

un enorme falò.

Occasione da prendere al

volo per un artista di 

talento: il fotografo 

Carmine La Fratta, autore di tutte le foto 

che pubblichiamo in questo articolo.


Franco Presicci

 
“Josce jè ffest/ la pupe alla fenestre/le surge a bballà/ e la iatte a cchecenà”. La vecchia filastrocca piomba nella mente mentre si snoda la sagra di San Marzano di San Giuseppe, il paese di 8000 abitanti: una folta comunità di profughi albanesi di rito greco-ortodosso, discendenti di quelli che nella prima metà del 1500 si rifugiarono in Puglia vicino a Taranto per sfuggire ai turchi che si erano impadroniti della loro terra.

Una sagra gremita, ordinata, movimentata, che rumoreggia, strilla, saltella, spruzza gioia nelle strade: adulti, giovani, ragazzi, uomini, donne: chi trascina grossi rami derivanti dalla potatura, frasche su carriole, su carri, carretti, sulle spalle, in braccio, su un trattore stracolmo, che avanza lento, spinto da quattro o cinque persone forzute... Un tripudio che fa accorrere spettatori anche dai centri vicini e qualcuno forse anche dall’Albania per assistere alla festa che inonda il paese con cumuli di rami, rametti, tronchi rinsecchiti, tra voci che s’intrecciano, si gonfiano, si diffondono, si spargono, assordano. E per l’occasione tutti partecipanti indossano i costumi tipici del loro Paese d’origine che ha come insegna l’aquila nera a due teste. Gli ultimi arrivi alla spicciolata si mettono in coda o s’infilano nel mezzo, Ai bordi non ci sono spettatori: tutti nella frotta, gai, simpatici, divertiti. Protagonista l’ulivo.

Una bella signora spinge una carrozzina con dentro un bimbo mezzo assonnato con un ramoscello in mano; una ragazza con una corona vegetale sulla testa; un giovane impugna una fronda come fosse uno scettro, un simbolo di vittoria, di conquista e invece è solo la testimonianza della sua partecipazione all’allegria collettiva; e ancora una donna con un sorriso comunicativo spalmato su tutto il volto; e un’altra bellezza, botticelliana, con un tronchetto ormai senza vita in braccio, come se quel pezzetto di legno le dovesse trasmettere energia o fosse un oggetto scaramantico. E’ difficile farsi largo in questa marea. Ognuno per sua scelta fa la sua parte: porta il peso, un frammento d’albero che ha deviato il suo corso verso il camino di casa sulle spalle o fascine di strome o “saramienti”.

I carrettieri con i cavalli, quanti cavalli, a passo d’uomo, robusti, forti, gradevoli, muscolosi, qualcuno quasi gualdrappato, mansueti, che si lasciano addobbare secondo il gusto del padrone, con veli costellati di foglie d’ulivo dalla faccia argentea, quella che il vento evidenzia quando scuote la pianta; cavalli che passeggiano con le briglie tenute da conduttori a piedi; cavalli forse consapevoli di partecipare, anche loro, alla baldoria; cavalli che s’inginocchiano davanti alla statua del Santo, san Giuseppe, il giorno della processione. Lì un traino trasporta una massa di fronde con i rami cascanti che nascondono il mezzo, di cui si vedono soltanto le ruote, dappresso cavalieri in sella che salutano il simulacro del Santo appostato di fronte, dall’altra parte della strada. Un ragazzino, forse di Locorotondo, spaesato e suggestionato dall’evento, va recitando un brano di una filastrocca dedicata ad un altro santo: “Sande Rocche jè fìgghie de ‘nu rignande, jere fangiulle acquando se ne andò/ un giorno volse andaje al cambesande/ le muerte a ccore a ccorre resuscitò”. Il papà, sorridente e anche commosso, lo scuote amorevolmente, lo accarezza, gli porge un tralcio e lui se lo infila sull’orecchio. E’ la gloria dell’ulivo, gli abitanti del paese lo trasportano come in trionfo, rami sciolti o affastellati. Ogni tanto si apre qualche slargo, che subito si riempie di gente che procede “lento pede”, come passeggiando, via via raggiunta da altri e lo struscio s’infoltisce, si spande. 

Che festa! Un momento, sta arrivando un altro veicolo agricolo: anche quello s’intravede fra la massa di rami che gli hanno messo addosso. Un gruppo di giovani tiene le fascine sul capo o le tira con una corda, e canticchiano. Tutto questo folklore, questa voglia di allontanare per due giorni i pensieri brutti, le ansie, le preoccupazioni, comunica gaudio, attira., avvince, coinvolge. Sono contento di essere qui tra loro”, mi confida un turista che sembra uscito da un quadro con aspetti di caccia inglese. “Mi piace vederli, lì sparpagliati, qui assiepati, mattatori, con gli ulivi tagliati dalla pianta e indossati come mantelli, copricapo, decorazione”. Improvvisamente scorgo quel grande cacciatore d’immagini, artista dell’obiettivo fotografico, sempre presente ai flussi di folla: Carmine La Fratta, nell’atto di farsi largo sgattaiolando fra la ressa. Poco importa al cacciatore che deve captare queste scene dai teatro, le più belle, le più significative, testimonianze magistrali e preziose di una grande vicenda. Il cacciatore è curioso, vuole stare dentro le cose, si è informato sulla genesi della sagra, la stessa da sempre, e informa a sua volta, a richiesta. Le radici della ricorrenza sono molto lontane. Deriverebbero da un episodio accaduto nel 1866. Prima di quella data la gente accendeva dei fuocherelli in onore di San Giuseppe; un anno ci fu una carestia e decise di tenersi la legna per sé, per cucinare e scaldarsi. Secondo la leggenda, il Santo si offese e la notte si scatenò un fortissimo temporale che sradicò moltissimi ulivi. Allora, con la convinzione che bisognasse riparare, si realizzò un unico corposo falò sul largo Monte con i rami ottenuti con la potatura donati dai proprietari dei campi. Il fuoco fu visto anche nei paesi limitrofi e sicuramente lo vide anche san Giuseppe, data l’altezza in cui è assiso. 

Nel 1866, le autorità deliberarono l’aggiunta al nome di San Marzano quello di San Giuseppe, che in virtù del mestiere da lui esercitato nella vita terrena protegge i falegnami e gli ebanisti, i carpentieri; e, come padre putativo di Gesù, i papà. E queste categorie erano presenti alla festa con le mogli elegantemente agghindate per la circostanza: con frasche, fiocchi, intrecci di ulivo. C’era anche un vecchietto con la zappa, emblema della fatica sulle zolle per rendere fertile la terra, per curare le viti, per potare gli alberi, tra cui, appunto, l’ulivo, albero sacro, millenario, colmo di storia e di storie da raccontare. E forse le racconterebbe se conoscessimo il suo linguaggio. Pianta dignitosa e forte, dallo zoccolo possente, come dice lo scrittore Carlo Castellaneta nel suo libro “Una città per due”. Ah, dimenticavo, c’è anche chi suona l’organetto, che allargando e stringendo il mantice ispira passi di danza. Ci sono anche momenti di emozione, soprattutto quando si osservano i volti in lacrime di signore devote, mentre sfila il Santo sulle vie Regina Margherita, Roma, piazza Milite Ignoto, corso Umberto, via Cavour, Vittorio Emanuele, Diaz, Federico II, Zona scarico.


Attimi toccanti quando il prete sparge acqua santa con l’aspersorio sulla folla, che si genuflette al passaggio del simulacro di San Giuseppe, portato in spalla, tenendo mucchietti di rami d’ulivo ai piedi. E s’inginocchia anche i cavalli, creando un “coup de thèatre”.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pianta meravigliosa, l’ulivo, teste dei momenti più drammatici dell’esistenza di Gesù. Nelle “Laudi” Gabriele d’Annunzio, il Vate, il poeta, il comandante che nel 1919 entrò a Fiume con 2600 legionari, dice: “Fratelli ulivi che fan di santità pallidi i clivi”. 
E qualcuno rievoca la frase dei venditori ambulanti che vendevano i loro prodotti: “Io vo gridando tutto il giorno a l’oglio com’è la sera le gambe mi doglio”. E leggendo Plutarco - biografo, scrittore, filosofo, influenzato dalle idee di Platone - nato all’ombra del Partenone – restiamo affascinati all’acclamazione di Cesare che proclama di aver procurato a Roma tanta terra da poterci ricavare quintali e quintali di litri d’olio. Ai tempi dell’Impero l’ulivo godè della massima diffusione. Quando si fa sera l’entusiasmo della festa si attenua; l’atmosfera della festa si placa. Al termine della messa il parroco benedice la legna. E la tradizione delle tavolate? Ecco, questa si deve all’usanza di preparare banchetti da offrire ai poveri e ai forestieri nei giorni della festa, il 18 e 19 marzo, in ricordo dell’ospitalità data alla Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto. E in ricordo dell’Ultima Cena vengono messe in tavola tredici pietanze, meno la carne per riguardo al momento quaresimale. La mattina del 19 marzo, prima della processione, vengono approntate le “mattre”, tavolieri in legno con piatti tipici locali, benedetti e distribuiti ai poveri. Non c’è che dire, una sagra sentita e attesa, in un paese pugliese della provincia di Taranto abitato, come detto, dai discendenti dei profughi albanesi. La festa di San Marzano di San Giuseppe è da tenere viva nella memoria, anche come uno spettacolo avvincente, oltre che come evento religioso.












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