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mercoledì 25 luglio 2018

Il grande cuore di fratello Ettore


 
NEL SUO RIFUGIO ACCOGLIEVA I POVERI


E DAVA LORO DA MANGIARE E DA BERE



Fratello Ettore predica





Durante la messa officiata da un
sacerdote recitava il Vangelo e invitava tutti ad essere buoni. 

Neppure lui sapeva dove trovasse l’energia necessaria per fare le sue opere di carità.












Franco Presicci

Dove fratello Ettore prendesse tutta quella energia forse non lo sapeva nemmeno lui. Forse non dormiva nemmeno la notte per pensare a quello che doveva fare per assistere tutti gli immigrati e i poveri che quotidianamente si rivolgevano a lui, nel suo rifugio Cuore Immacolato di Maria, in via Sammartini 112 (oggi sede della Charitas), in uno dei budelli che stanno sotto la stazione Centrale.

L'ex rifugio
Non stava mai fermo. Sempre sulla strada, calato nella sua tonaca frusta con una grande croce rossa sul petto. Bussava a tutte le porte per procurare generi alimentari, vestiario… E quando una di quelle porte non si apriva non si scoraggiava. Una mano caritatevole riusciva comunque a trovarla: “Un piatto di pasta, un pezzo di carne, due dita di vino da servire ai miei bisognosi non mancano mai. Ci pensa la Provvidenza, che è grande”. Aveva per tutti una parola buona, anche se a volte era brusco, sbrigativo, avendo la testa a mille cose. Gli ospiti lo incalzavano, lui a volte perdeva la pazienza, ma alla fine regalava un sorriso. A Milano lo conoscevano tutti e molti si davano da fare a dargli un contributo, che non era mai abbastanza. “Ettore – gli dicevo quando qualche volta la domenica verso mezzogiorno lasciavo il giornale per andare a trovarlo – ogni tanto ti fermi?”. E lui: “Come faccio, lo vedi anche tu quante sono le persone a cui devo badare”.

Fratello Ettore tra i poveri
Un pomeriggio piombò nella stanza che per un intervento chirurgico occupavo alla clinica Pio X, tenuta dai suoi confratelli camilliani, e dopo un ciao frettoloso depose su un comodino un malloppo di carte: il progetto di una nuova sede che stava per aprire. “Come hai saputo che ero qui?”. “Me lo ha detto il mio collega che è venuto a darti la benedizione poco fa”. Ma questo importa poco, in ogni cosa c’è un aiuto ispirato dall’alto. Adesso tu mi ascolti mentre ti sintetizzo il piano, poi me ne vado, tu te lo leggi e se credi scrivi l’articolo. Tanto fra qualche giorno sarai dimesso”. Non mi chiese nemmeno come stessi. Si alzò e infilò la porta. La riaprì per raccomandarmi di leggere bene il piano… è prevista anche una chiesa”. Fratello Ettore, al secolo Ettore Boschini, era fatto così: infaticabile, vulcanico, una fede incrollabile, determinato. La domenica, durante la messa officiata da un sacerdote, saliva su una pedana e recitava passi del Vangelo. Quindi invitava gli ospiti a mettersi a tavola. Dopo tanti anni ricordo ancora la parabola della zizzania, che pronunciò in parte. “Un uomo aveva seminato del buon grano nel suo campo.
La targa sul muro dell'ex rifugio
Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico e seminò zizzania in mezzo al grano; poi se ne andò. E quando il grano spuntò e fece la spiga, allora apparve anche la zizzania”. Non lo disse a caso: qualche giorno prima un gruppetto di arabi, dopo essersi nutriti, uscirono e proprio sotto la grande statua della Madonna, che oggi è un’edicola in una grotta formata da un gigantesco oleandro, rivolgendosi ai passanti ne avevano dette di tutti i colori contro fratello Ettore, accusandolo fra l’altro di averli discriminati. Invece il vino soverchio che avevano furtivamente ingerito veniva proprio dalla mensa del camilliano. Ettore non faceva distinzioni. I barboni, i senzatetto, gli uomini di colore erano suoi fratelli. Un giorno caddi dalle nuvole: notai un uomo sui settant’anni, vestito bene, educato. Gli chiesi come mai frequentasse il rifugio, dove mangiava con gli altri come fosse uno di loro; e appresi qualche brano della sua storia: era stato un professionista, poi aveva litigato con tutt’i familiari, era andato via di casa diventando un “clochard”.

Fratello Ettore prega
Nella breve conversazione capii che aveva anche una cultura, soprattutto musicale. Ma mi sembrò fuori di testa. Sensazione confermata da fratello Ettore. “Non so dove vada a dormire, ma quando ha fame viene qui. E io lo ricevo con slancio, come faccio con tutti”. Ettore allestì tanti rifugi, ma il più famoso era quello aperto nel ’79, “Amici, Cuore Immacolato di Maria”, qui, in via Sammartini, che prendeva il nome di un prolifico compositore di musica e professore d’armonia e contrappunto vissuto nel ‘700. Era apprezzato, rispettato, fratello Ettore. Qualcuno lo considerava un santo, qualifica che lui respingeva con determinazione. “Io sono un servo del Signore, che mi ispira nel servire questi disperati”. Non gli mancò qualche maldicenza, ma lui non se ne curava, tirava dritto. Chi stava sull’altra sponda del fiume, lontano dalla fede, diceva: “Ma chi gliela fa fare? Quali interessi persegue? Tutta questa fatica, questi sforzi, questo correre da una parte all’altra della città, senza mai una sosta avrà un obiettivo”. Certo che ce l’aveva, fratello Ettore. Era quello di dare un piatto caldo a chi aveva fame; un paio di pantaloni a chi aveva freddo; e anche un tetto, il rifugio, a chi di notte si riparava in una scatola di cartone o in un’auto da rottamare.

Fratello Ettore con un ospite
La carità ha spesso nemici ottusi. Fratello Ettore era nato in un paese del Mantovano, Roverbella. Quando era piccolo un tracollo economico aveva indotto il papà agricoltore a ricominciare da zero. Lo stesso Ettore, fattosi più grande, aveva dovuto rinunciare ai banchi di scuola per lavorare in campagna. Una vita di ristrettezze, di sacrifici. All’età di 24 anni entrò fra i Camilliani, l’ordine dei chierici impegnati nell’assistenza agli ammalati. Nel ’60 venne a Milano, alla clinica di via Nava. Di giorno studiava per conseguire il titolo di infermiere professionale e di notte percorreva la città su un’auto malsicura, alla ricerca di indigenti da aiutare. La stazione Centrale era affollata di questa umanità che dormiva sulle scale o sulle panche della sala di attesa di seconda classe, al freddo. E spesso i ferrovieri del turno di notte li facevano sloggiare, e loro erano costretti a trasferirsi in uno dei tunnel, bui e insicuri, sotto lo scalo. La vita da barboni è un inferno. Dopo il rifugio di via Sammartini, fratello Ettore inaugurò, fuori Milano, l’altro rifugio (quello che mi aveva illustrato in clinica) e poi altri perfino all’estero. 

Fratello Ettore e la statua della Madonna
Il secondo in uno spazio del Paolo Pini, dove accolse ammalati di Aids, anziani in pessimo stato di salute, infermi di mente, vittime della droga. Chiunque avesse bisogno trovava un’ancora nel camilliano. Che si battè contro le ingiustizie e contro le guerre che dissanguano i popoli. Alla notizia del conflitto nei Balcani collocò sul sagrato del Duomo l’immagine della Madonna, si inginocchiò, recitando a gran voce il rosario. Nel 1989 ai coristi della Scala in partenza per Mosca consegnò molte copie della Bibbia da dare alla chetichella alla gente di quella città. Aveva coraggio, tanto amore per il prossimo. Ed era molto umile. Non chiedeva mai per sé, ma per i suoi protetti. Non si aspettava riconoscimenti o elogi. E quando il Comune di Milano decise di assegnargli l’Ambrogino d’oro non si mostrò entusiasta: “Dovrebbe essere dato a tutti i volontari che collaborano con me”. Insidiato da mesi da un tumore, morì il 20 agosto del 2004 nella clinica di San Pio X, all’età di 77 anni, e venne sepolto nella cappella del rifugio Betania delle Beatitudini a Seveso, altra sua opera di carità. Giorni fa sono tornato in via Sammartini, dove le poche persone incontrate ricordavano bene la figura del camilliano e la visita di Maria Teresa di Calcutta al rifugio, avvenuta nel maggio del ‘79 . Un tale che si reggeva appena con il bastone ha rispolverato l’ingratitudine che il camilliano aveva subito. Era ancora indignato: “Caro fratello Ettore, dopo tutto quello che faceva ha preso anche qualche schiaffo. Il giorno di Pasqua del 1987, cinque o sei beneficiati dissero a un giornalista che fratello Ettore si era rifiutato di dar loro da mangiare. In vece quelli erano stati seduti alla tavola da lui imbandita, assieme ad altri 80 indigenti, bevendo alla chetichella anche qualche bicchiere di troppo. Alla fine avevano avuto un paio di pantaloni nuovi e un paio di calze. Sicuramente avevano chiesto soldi e non erano stati accontentati”. Se lo ricordano ancora, fratello Ettore, non soltanto in via Sammartini.









mercoledì 18 luglio 2018

Ronchetti, calzolaio dantista


Anselmo Ronchetti
PRESE A MEMORIA LE MISURE
 

DEL PIEDE DEL BONAPARTE
 






Mentre il generale percorreva

corso Venezia, lui tra la folla

annotava. Poi confezionò un
 
paio di stivali “alla dragona”,
 
che gli valsero l’approvazione
 
e l’amicizia del condottiero.













Franco Presicci


Oggi gli affibbierebbero l’etichetta di re dei calzolai, includendolo nella lista del “Guinness dei primati”. Anselmo Ronchetti (di lui si parla) non aveva rivali. Perfetto nell’esecuzione dei manufatti, capace di realizzare qualunque tipo di scarpa, per le donne italiane, per quelle francesi, inglesi, cinesi, piccole perché in Cina il valore “del sesso debole” si misura dalle dimensioni delle sue estremità…; larghe di dentro e strette di fuori, ben calzanti per i piedi particolari; e, per gli uomini, che hanno i loro gusti e le loro preferenze, come i soci della Compagnia della Teppa (nata a Milano proprio in questo periodo), che le volevano miagolanti, oltre che brillanti. I più esigenti e raffinati uscivano dal suo laboratorio più che soddisfatti. Mai una lagnanza, mai un pignolo che cercasse il pelo nell’uovo. L’incisore Giuseppe Longhi celebrò l’arte di Anselmo con una dedica su una stampa: “Al genio della solida stivaleria italiana”.
Corso Venezia
L’impresa più singolare, più temeraria, più clamorosa Anselmo Ronchetti la mise a segno il 15 maggio 1796, quando Napoleone Bonaparte, passato il Po a Piacenza, sconfitto al ponte di Lodi il Banlieu, entrava a Milano alla testa del suo esercito attraverso corso Venezia. L’emulo di Giulio Cesare cavalcava il suo cavallo grigio, Marengo, coraggioso, fiero, fedele, elegante, ferito diverse volte in battaglia, tra fitte ali di popolo festante, diretto a Palazzo Serbelloni, mentre uno spettatore che non partecipava a quell’entusiasmo aveva gli occhi e la mente fissi ai piedi del Corso, per prenderne a memoria le misure. Subito dopo, tagliando la calca, corse nella sua bottega di via Cerva e confezionò un bel paio di stivali “alla dragona” per il generale. Il giorno dopo si presentò a Palazzo Serbelloni e chiese di poterli consegnare. L’illustre destinatario, ammirato e stupìto, elogiò l’opera compensando l’eccezionale artefice con 40 luigi, nominandolo suo calzolaio di fiducia.
Palazzo Serbelloni
Fece di più, meravigliando tutti, lo proclamò suo amico e lo raccomandò a tutti i dignitari europei. La fama di Ronchetti lievitò e in via Cerva cominciarono ad arrivare ordinazioni da mezzo mondo, dallo zar, dagli Stati Uniti, dall’imperatore di Russia, dall’imperatore d’Austria. Napoleone gli commissionò non si sa quanti stivali. Il talento di Ronchetti diventò una leggenda. Il suo nome era sulla bocca di tutti; e germogliavano le voci, ma sempre con riguardo. Per esempio, si diceva che avesse 15 figli e se ne conoscevano soltanto due: Carlo e Eugenio. Ma l’interessato non se ne curava. Nato nel 1773 a Pogliano, a pochi passi da Parabiago, da genitori originari di Busto Arsizio, ben presto si accorse che quel paese gli andava stretto, e rimuginava sulla possibilità di abbandonarlo per trasferirsi nel capoluogo lombardo, dove sapeva che gli si sarebbero aperte le porte assicurandogli il merito che gli spettava.
Porta Venezia
Pensa e ripensa, alla fine si decise: fece il passo decisivo e non tardò ad essere assunto come apprendista da un maestro, che mai si pentì di averlo preso a bottega; anzi non mancava di esaltarne le doti. Anselmo lavorava alacremente, imparò i rudimenti del mestiere, e quando fu il momento comunicò al principale, che si rammaricò parecchio, l’intenzione di mettersi in proprio, aprendo bottega in via Cerva, una via battezzata con il nome di un’antica osteria e che in seguito, morto il portentoso ciabattino, il 19 agosto 1833, ebbe di fianco una consorella dedicata a lui, patriota e intellettuale ... Poi l’edificio fu sacrificato alla vocazione di Milano per il cambiamento e scomparve anche la targa che la società di mutuo soccorso tra i calzolai meneghini aveva fatto affiggere. Il testo, di Carlo Romussi, avvocato e giornalista, tra i fondatori della Società storica lombarda, critico teatrale de “Il Secolo” di Edoardo Sonzogno, e padre tra l’altro di “Petrarca a Milano e di Milano nei suoi momenti storici”, definiva Ronchetti “schietta anima ambrosiana che tenne alto il decoro del lavoro italiano”.
Galleria Mazzini
Ma siccome Milano non dimentica le sue glorie, sparito quell’edificio eccone un altro, dedicato al campione dell’arte del calzolaio. Che aveva un gran numero di amici, soprattutto pittori e scrittori, tanto che il suo negozio poteva essere considerato concorrente del salotto della contessa Clara Maffei. C’era infatti un continuo via vai di personalità, tra cui Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Tommaso Grossi, Massimo D’Azeglio, Cesare Beccaria, Giacomo Leopardi, Giuseppe Parini, Carlo Porta, Vincenzo Monti… Una volta fece capolino anche lord Byron. Luigi Medici , avvocato, docente di diritto, poeta, appassionato cultore delle tradizioni locali, autore del libro “Le osterie di Milano”, uscito nel 1930, per 40 anni tra i soci più impegnati della Famiglia Meneghina, compilò una biografia di Anselmo, ricordando fra l’altro i dialoghi che s’intessevano piacevolmente con lui nel suo laboratorio su Caravaggio, Socrate, Plauto; sugli accadimenti quotidiani; sulla politica… argomento, quest’ultimo che fece circolare la voce che Anselmo attirasse, come racconta Giuseppe Rovani,
Federico Confalonieri
i Federati del conte Federico Confalonieri, che il 13 dicembre del 1921 venne arrestato e destinato allo Spielberg, prigione presso Brno in cui furono rinchiusi anche Piero Maroncelli e Silvio Pellico. De “Le osterie” si persero le tracce; poi un avvocato amante dei libri antichi ne rintracciò per caso una copia su una bancarella e gli fece dare nuova vita. Ronchetti era infaticabile. Carattere orgoglioso e determinato, di giorno creava calzature, con lena, con gioia, seguendo gli usi dei vari Paesi e i capricci dell’epoca, e di notte studiava, soprattutto letteratura. E da buon conversatore, tra un colpo di trincetto e l’altro, ne parlava con gli amici che lo apprezzavano, gli volevano bene e lo colmavano di doni. Parini gli lasciò per testamento un bastone con il pomo d’avorio e un orologio a pendolo; Andrea Appiani il disegno di una giovane donna; Foscolo una copia dell’opera “Delle origini e dell’ufficio della letteratura”; Vincenzo Monti una copia di un famoso quadro con la dedica: “Una stampa del famoso Agricola, che spero non sarà indegna del vostro bel Gabinetto, perché rappresenta quel divino Dante che voi amate”. Definire Anselmo Ronchetti un dantista non si esagerava. Così veniva indicato. Dantista e poeta. Se un cliente, poeta a sua volta, lamentava un ritardo nella consegna dei calzari, lo faceva in versi. Lo fece anche Carlo Porta, destinandogli un sonetto. In tanti hanno scritto di Anselmo Ronchetti.
Napoleone a cavallo

Quel grande scrittore, nobile e coltissimo, gentiluomo di antico stampo, autore di tanti libri (“Milano in carrozza”, “I segreti del varietà”, “La Milano dei Promessi sposi”, “I cinematografi di Milano”, “Come da noi si rideva - e si ride”, “Cultori della vecchia Milano”…), che è stato Alberto Lorenzi, ha tracciato un ritratto puntuale e appassionato, in cui il calzolaio conoscitore di Dante quanto l’arte che praticava esce dalle pagine e rivive. Nel romanzo “Cento anni” Giuseppe Rovani ha raccontato la vita quotidiana nella bottega del calzolaio, le cui pareti fungevano da ricca esposizione di tele e disegni di autori eminenti e il retro dei modelli di tutte le scarpe che aveva confezionato, soprattutto quelle di Napoleone. Morto Ronchetti, tante di queste preziosità si sono disperse e quelle sopravvissute sono in musei milanesi.
Il ricordo di questo personaggio, considerato un vanto della sua terra, non si è dileguato, si è solo un po’ appannato. Una cinquantina di anni fa Raffaele Bagnoli, storico attento e scrupoloso, vice “resgiò” della Famiglia Meneghina, nei suoi cinque nutriti volumi sulle “Strade di Milano”, ormai scomparso dalle librerie (vi racconta le vie, le piazze, la darsena, i navigli nei loro cambiamenti, nelle loro caratteristiche; le chiese, la loro storia, la loro architettura, i restauri, le rovine; gli angoli abbattuti…) scrisse, con il suo stile semplice e piacevole, che la casa di Anselmo venne demolita in seguito all’apertura di via Borgogna e alla formazione dell’isolato di nuovi palazzi che fa angolo con via Visconti di Modrone. Ma in zona Monforte, come abbiamo detto, un’altra via che sfocia in via Cerva è intitolata ad Anselmo Ronchetti, cittadino importante, che fece onore non soltanto alla sua categoria.











giovedì 5 luglio 2018

La pediatra milanese Anna Bruno

La dottoressa Anna Bruno cura un bimbo
 
A MALINDI PER AMORE
E SOLIDARIETA’ UMANA

La dottoressa ci va ogni
anno per curare con gioia i 350 bambini del Centro Tabazanu, dotato di ogni attrezzatura: laboratorio di analisi, scuola, campo sportivo, una chiesa spoglia, con una bellissima "via crucis" di rame.






Franco Presicci
La dottoressa Bruno( prima a sinistra) parla ai bimbi
Malindi, come si sa, è una delle mete ambite per le sue meraviglie. Si trova in Kenya a 120 chilometri da Mombasa, nella contea di Kilifi. Dei suoi primi anni non si hanno informazioni e i reperti archeologici indicano la presenza dal IX secolo della gente bantu, che circa 3000 anni fa si sparse in varie zone, avviando il popolamento dell’Africa. I turisti innamorati di Malindi, che tra l’altro ha spiagge bianche lunghe chilometri salvaguardate da una barriera corallina, colori inebrianti, un mare splendido, tante curiosità da ammirare, come il “Falcony Center”, ricco di uccelli da preda abili nella caccia. Gli appassionati del “surf” vi hanno davvero di che sbizzarrirsi. Una specie di paradiso, dunque... Malindi però non ha soltanto tutto questo.
Anna Bruno(la seconda a sinistra)
La dottoressa Anna Bruno, pediatra, una signora dolce, ironica, comunicativa, colta, intelligente, non la frequenta per trascorrervi un periodo di “rekax”; una vacanza da sogno da raccontare al ritorno agli amici. Ci va per esercitare gratuitamente, addossandosi interamente il soggiorno, per curare i bambini del Centro Tabasanu, che sorge a 25 chilometri da questa sorta di eden, in cui sono presenti molti stranieri, tra cui primeggiano gli italiani. Come ti è venuta l’idea di intraprendere questo cammino, ho chiesto sere fa alla dottoressa Bruno mentre avevamo davanti un piatto di orecchiette con il sugo e squisite polpette, che ricordavano i piatti della nonna.
I bimbi si offrono all'obiettivo
E’ presto detto: “L’ultimo anno del mio lavoro lessi su un giornale un articolo in cui si diceva che per aiutare i bimbi del Nepal e del Tibet bisognava prendere accordo con un centro di Katmandu. Mentre ero in viaggio di piacere sono andata a vedere questo centro e sono rimasta entusiasta per le attività che svolgevano in favore dei bimbi. L’anno successivo sono tornata per lavorarci”. Visitava i bambini scolarizzati, e anche qui tutto a sue spese. Ci è andata per sei anni, rimanendovi a febbraio e marzo. Poi le cose sono mutate, c’è stato il cambio del governo e l’aria che vi si respirava non era più gradita. Così Anna ha deciso di spostarsi in Africa, preferendo Malindi. “Dove mi sono sempre trovata a mio agio sin dal primo giorno, tanto che ci torno da sette anni”. Il Centro Tabasanu, in cui la Bruno presta la sua opera, ospita 350 bambini ed è ottimamente attrezzato. Ha una scuola primaria, un dispensario, gestito da una suora maltese, suor Beatrice, che ha tre consorelle: una con il compito d’infermiera, suor Giustina, e le altre sono insegnanti. Il Centro in questi anni è stato notevolmente modificato, aumentando la sua potenzialità con un laboratorio di analisi seguito da una delle suore e un centro di ostetricia (che non è ancora attivo perché aspettano un’ostetrica), dove le partorienti usufruiranno di un paio di giorni di degenza dopo la nascita del piccolo. Inoltre è in costruzione un reparto di fisiochinesiterapia, che sarà ultimato quanto prima.
A tavola
Mentre è attivo un refettorio, che quest’anno verrà ampliato per dare un pasto caldo a tutti i bimbi, mentre adesso viene dato solo ai più piccoli. C’è anche la chiesa, spoglia dotata di una bellissima “via crucis” in rame, dove vanno a seguire i riti sacri anche persone appartenenti a religioni diverse. La dottoressa Anna Bruno non si stanca di descrivere l’ambiente che pratica con impegno professionale e gioia. “Non ti ho detto dell’impianto sportivo: un campo da calcio e da pallacanestro, in cui si riversano i ragazzi, addestrati da uno dei tanti volontari incaricato di insegnare a dare pedate al pallone e a mirare al canestro. Non è trascurata la cultura, alla quale è dedicata una sala-conferenze e dibattiti. E’ aperta a tutti, e in ogni manifestazione affluisce tanta gente che arriva dai villaggi vicini.
Il pranzo è pronto
Sino all’anno scorso il vescovo, che vedeva di buon occhio questi incontri, prenotava dei mezzi di trasporto per prelevare rigagnoli di ragazzi nei villaggi più lontani, ma anche gli adulti, per dare loro la possibilità di partecipare alle attività. Poi il prelato è passato purtroppo a miglior vita, ma il flusso non si è fermato. “Le aule sono affollate di bimbi scolarizzati”. Tu come passi le ore? “Visitando i bambini ammessi alla scuola, curandoli, quando è necessario. E’ stupendo il rapporto che ho con questi miei pazienti. Quando sono seduti in sala di attesa sono tristi, preoccupati, intimiditi, sospettosi; poi bastano una caramella e una carezza sincera accompagnata da un sorriso per tranquillizzarli. Ne avvertono il bisogno; e li vedi poi contenti, riacquistare fiducia”. Come è nato questo Centro? “Prima di tutto devo dirti che è in mezzo alla foresta, circondato da villaggi molto poveri… E’ nato per volontà di Marisa, una fisioterapista che purtroppo è morta quattro anni fa dopo aver governato la struttura per anni. Il marito, Claudio, architetto, si è sostituito a lei per continuare la sua opera e migliorarla.
L'ora del gioco
Tra i suoi progetti quello di intensificare il numero dei bimbi fino a 500. E ne siamo tutti felici. Questi bimbi vengono a scuola dai vari villaggi anche a piedi alle 10 ed escono alle 16.30. Le classi vanno dalla prima alla sesta, poi gli scolari si cercano un lavoro, che varia a seconda dell’inclinazione e del corso che hanno seguito (computer, idraulica…). In tutte le classi viene insegnato l’inglese. Questi bambini – aggiunge la dottoressa Bruno - sono volenterosi, bravissimi, in buona salute e quando lei arriva (alle 10, dopo un percorso alquanto accidentato assieme a Claudio e a due amici, che sono del Lago di Garda) l’accolgono sempre cantando. Sono sereni. Tra loro c’è armonia e trascorrono la ricreazione tra suoni e canti. Dopo aver mangiato, con le mani, si lavano i piatti da sé in un recipiente appena fuori del refettorio. Alcuni indossano le scarpe; tutti hanno una divisa, che viene lavata due volte la settimana. 
Bambini giocano
Nelle ore libere giocano con i copertoni delle auto, con i sassi, con la terra. Giochi elementari, improvvisati come quelli che dopo la seconda guerra mondiale facevate voi maschietti: la palla di pezza confezionata da voi stessi con stracci legati con la corda e calciata tra due porte erette con mucchi di pietre. I più grandi rincorrono la sfera sul campo, incoraggiati dal volontario, i cui colleghi ci danno una mano per altre incombenze". Quando è nato questo Centro? L’alimentazione comprende fagioli, granturco, patate. Ai piccoli per colazione viene dato il “porrige” (farina più acqua). " Quando sono a Milano non vedo l’ora di prendere l’aereo e partire. Con il volo diretto arrivo a Mombasa e dopo altre 3 ore di auto sono quasi a destinazione. Una bella tirata, che però non mi pesa". Altri particolari? “Nel Centro ci sono i guardiani, le suore abitano nel complesso, ognuna nella sua stanza. La suora infermiera, oltre al normale funzionamento del dispensario, ogni mercoledì preleva il sangue per accertamenti diagnostici (epatite, malaria…) a tutti coloro che provengono dai vari villaggi, adulti compresi”. Insomma l’Africa chiama e chi ha cuore risponde all’appello. La dottoressa Anna Bruno ha trascorso gran parte della sua vita a curare i marmocchi. Rimasta vedova 21 anni fa (il marito, Martino Colafemmina, ingegnere, uomo generoso, disponibile, impegnato nell’associazionismo, collezionista di orologi antichi, tra l’altro contitolare di una grande masseria ad Acquaviva delle Fonti, in Puglia, morì in un incidente ferroviario), cominciò a dedicarsi alle opere di solidarietà umana, fino a sbarcare in Tibet e poi a Malindi, che per tanti altri è luogo di divertimento, così irridente, riposante, magico, da ricevere ogni anno sciami di vacanzieri. Nel ’30 attirò anche Ernest Hemingway, che aveva la passione della pesca d’altura; e nei secoli altre personalità, come, nel 1541, il missionario gesuita Francesco Saverio, che vi soggiornò per diversi mesi.








mercoledì 4 luglio 2018

Donato Pastore si raccontò in un libro


Donato Pastore
DA BAMBINO SOGNAVA

L’AUSTRALIA

MA SCOPRI’ L’AMERICA

A MILANO


Fruttivendolo, veniva da Bisceglie, e dopo aver fatto diversi mestieri aprì un primo negozio, bellissimo, con più vetrine, in via Lecco.

Portava la merce a domicilio, e per arrivare più presto imboccava i sensi vietati.


“Correvano tutti e imparai a correre anch’io”.










 

Franco Presicci


Dino Abbascià e don Franco Semeraro
Da ragazzo nella sua Bisceglie sognava l’Australia o il Canada. Niente paura per la lontananza. Tanti giovani l’avevano affrontato prima di lui, quel viaggio pieno d’incognite. I vecchi del paese gli dicevano: “Donato, se vai a Milano è meglio: dodici ore di treno, magari in piedi nel corridoio o seduto sulla tua valigia di cartone, nella calca e nuvole di fumo, e arrivi a destinazione.
Per un po’ ti sentirai spaesato, perché quello è sempre un paese straniero, ma con il tempo ti ambienterai e farai fortuna. E sei sempre quasi a casa”. Lui stava a sentirli, ma poi riprendeva a volare con la fantasia: l’Australia, un luogo grande, accogliente. Quelli che sanno sempre tutto e predicano in piazza dalla mattina alla sera gli avevano detto che i paesani già partiti avevano fatto fortuna, anche in America. E lui fantasticava, seduto dietro un banco inondato di colori (melanzane e fragole, arance e carciofi).
Perché Donato quello voleva fare, il fruttivendolo, in un negozio suo, con l’insegna: “Le preziosità di Bisceglie, Puglia, Italia”. Ma i soldi per il biglietto chi glieli li avrebbe dati? Per andare a Canberra o a Sidney ci voleva un patrimonio – pensava - ma la famiglia non si sarebbe certo tirata indietro, avrebbe fatto di tutto per racimolarlo. Qualunque sacrificio, pur di vederlo felice. Alla fine si decise. 
Abbraccio tra Abbascià e Nico Blasi al Rotary di Merate
Nel ’53 prese il treno della speranza diretto a Milano, “dove ho trovato l’America senza dover prendere il bastimento”. Lo incontrai spesso all’associazione pugliesi, alle feste di carnevale all’hotel Quark o a quelle di Natale e di Pasqua, dove piroettava come un ballerino provetto con la sua Pasqualina. Non ne perdeva uno, di balli. Un giorno mi mostrò un suo libro intitolato “La Torre”, che è quella del suo paese, un simbolo in periferia che lui si portava sempre nel cuore. I pugliesi, almeno la maggioranza, come gli uccelli non dimenticano mai il nido. Sfogliai le pagine e gli promisi di raccontarlo. Me lo regalò guardandomi fisso: non si aspettava di suscitare il mio interesse; e si lasciò scappare una “cumparsita” per continuare a dirmi grazie e per precisare che non aveva pretese, non si credeva uno scrittore, aveva voluto soltanto lasciare ai suoi figli una testimonianza della sua vita di uomo tenace emigrato dal Sud. “Tranquillo, Donato, leggerò subito questa tua opera: merita attenzione”. Era il 2006 e aveva quasi ottant’anni.

Fragole
“Sapessi la nostalgia che a questa età provo per il mio negozio a tre vetrine in via Lecco, all’angolo con viale Tunisia, che sfocia in corso Buenos Ayres. Servivo di pomodori, zucchine, cime di rapa le migliori famiglie della zona…”. Parlava con semplicità e schiettezza, terra-terra, anche di Bisceglie, sorta nel Medioevo, conquistata da Roberto il Guiscardo e data in dono a Pietro, conte di Trani. La tua vita, Donato, parlami della tua vita. “In questa città laboriosa, Milano, ho sempre faticato moltissimo, sin dai primi giorni, quando stavo nel negozio ortofrutticolo dei fratelli Ventura, in piazzale Maciacchini…”. Non poteva permettersi il lusso di una pensione e con altri ragazzi dormiva nella stessa bottega, in cucina, alla quale si accedeva attraverso una botola. “Quando facevo il servizio a domicilio entravo in case sfarzose e mi chiedevo: ‘Avrò anch’io un giorno quattro muri per me e la mia famiglia? Non una dimora come questa, per carità”. Dopo qualche anno, con un amico, Mauro Mastrapasqua, prese in gestione il negozio di via Lecco.
Pomodori e carciofi
Gli affari andarono bene e si ingrandirono, avviando due altre attività in via Canonica, con la licenza acquistata da un cinese (la zona è infatti affollata di “occhi a mandorla”) e al mercato rionale di corso Garibaldi. E assunsero parecchi garzoni. “La domenica mangiavamo tutti assieme, preparandoci i piatti noi stessi”. E andavamo a ballare nella sala degli ex combattenti di via Cadamosto o sotto la galleria Puccini”. Tra le canzoni che furoreggiavano “Grazie dei fior” e “Buongiorno tristezza”. Alla Radio, dagli studi di Milano andava in onda un programma seguito in tutta Italia, “Cicchiricchì”, con la “Signora Cipriani e Flo”, due personaggi partoriti dalla fantasia di Enrico Simonetta e Guglielmo Zucconi, che successivamente, dopo aver guidato la “Domenica del Corriere”, diventerà direttore del quotidiano “Il Giorno”. Donato ricordò anche i duelli cinematografici fra Gino Cervi e Fernandel, Peppone e Don Camillo; e gli operai che andavano a bere il “bianchino” al “Bottegone” di Sesto San Giovanni. Poi tornò al negozio di via Lecco per dire che era talmente bello che nel 1955 lo riprese la televisione e i suoi parenti a Bisceglie andarono dal vicino a vederlo. E la società con Mastrapasqua? Si sciolse. “E per 800mila lire acquistò la licenza per la vendita di frutta e versura in via Felice Casati 16. Nel ’60 si fidanzò con Pasqualina Colonna e la sposò nella chiesa di Affori. Ricevette lo sfratto perché la casa doveva essere restaurata e inaugurò un negozio in un locale prima adibito al commercio degli ombrelli, in via San Gregorio 23.
 
Pastore balla con la moglie Pasqualina
Vi lavoravano lui, la moglie e due ragazzi, che come tanti altri a quei tempi venivano da Bisceglie, importante centro agricolo. “Crescevo i miei figli, Maria Teresa e Vincenzo Donato, e consegnavo la spesa pedalando. Per fare prima andavo anche in senso vietato. Correvano tutti e imparai a correre anch’io”. Pensavi più all’Australia? “No, a Milano mi sono trovato subito bene; la città non tardò a mostrarsi generosa, mi spianò la strada, facendomi realizzare i miei obiettivi. Chi ci pensava più, all’Australia o al Canada. E dire che chissà quante volte ero andato a Bari, all’ufficio emigrazione, per avere notizie su quei Paesi”. Prima di venire a Milano Donato Pastore era sbarcato a Bergamo, dove aveva uno zio. “Lì feci diversi mestieri. Lavorai anche alla messa in opera del cavo della televisione da Seriate a Milano con la ditta Sirti”. Quindi fui preso in un cantiere edile. “Dopo un po’ mi misi a fare l’ambulante di frutta e verdura, con una licenza valida per Bergamo, Brescia e Milano”. Nel ’53 ci fu inverno rigido, che faceva gelare la merce. Fu allora che si decise a trasferirsi nel capoluogo lombardo, dove cominciò la sua avventura al Nord. La conversazione con Donato Pastore si svolse tra suoni e canti.

Pane e pomodori
Ogni tanto arrivava Dino Abbascià, nipote di Donato e grande comunicatore (le feste senza di lui sarebbero state mosce), per sollecitarci a immergerci nelle danze (“Avvinghiatevi in questo valzer; non perdetevi questo tango…”), mentre qualcuno lanciava i coriandoli che si srotolavano sulle teste di signori e signore. Ma mancava qualche tratto al quadro che Donato andava dipingendo e non volevo che si distraesse. Qualche ricordo della tua vita da bambino? Sapevo che ce l’aveva, e dalla sua memoria sbucò un episodio che raccontò divertendosi, con un sorriso pacioso che s’illuminava spesso sul suo viso paffuto. “Quando avevo 27 mesi un giorno papà e la mia sorella maggiore, Anna, la mamma di Dino Abbascià, il re dei prodotti della natura, che come sai a Milano ha costruito un impero ed è vicepresidente dell’Unione Commercianti, presente in tanti consigli di amministrazione, la ditta in un palazzo in via Toffetti, al Corvetto, e tanti furgoni con il suo nome che attraversano Milano, mi portarono in campagna; e mentre con altri contadini, raccoglievano le olive, mi ‘parcheggiarono sotto un albero vicino, tenendomi sempre sotto controllo”. Giocando, improvvisamente lui si allontanò, e quando se ne accorsero si allarmarono tutti. Si misero a gridare disperati il suo nome, nella speranza che comparisse dalle spalle di una pianta. Invece Donato non si vedeva, si era volatilizzato. Si mobilitò il paese, intervennero i carabinieri, i vigili urbani. Calò la notte, accesero le lampade, le torce, sotto un temporale pauroso che accresceva il timore che a Donato fosse accaduto qualcosa di brutto. “Mi ritrovarono all’alba all’ombra di un carrubo. Dormivo tranquillamente”. Donato Pastore è morto qualche anno fa, lasciando un segno, una testimonianza di quello che sono stati capaci di fare i pugliesi in ogni campo lontano da casa.











mercoledì 27 giugno 2018

Il soggiorno milanese di Giovanni Verga



Piazza della Scala
SCRIVEVA STANDO IN PIEDI

CON I FOGLI SU UN LEGGIO

Si ambientò subito e frequentò i

salotti letterari di Vittoria Cima e

della contessa Maffei, la Scala, il

Savini, il Cova, oltre agli

Scapigliati. Scrisse anche “Per le

Vie”, edito da Treves e pubblicò

“I Malavoglia”, che apre il ciclo

dei vinti.







Franco Presicci
A Milano Giovanni Verga arrivò, dopo un soggiorno a Firenze, nel 1872, per avere maggiori opportunità di lavoro e contratti più favorevoli dagli editori. La decisione di trasferirsi fu presa dopo la pubblicazione di “Storia di una capinera”, nel 1870.
Giovanni Verga
Nella “capitale morale” e della Scapigliatura si ambientò molto presto, partecipò alla vita dei salotti di Vittoria Cima e della contessa Clara Maffei; frequentò con l’amico conterraneo Luigi Capuana, autore tra l’altro de “Il marchese di Roccaverdina…, Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa…; ebbe relazioni amorose con belle signore appartenenti alla borghesia imprenditoriale, come Paolina Greppi e Dina de Sordevole…; andò spesso alla Scala e fu assiduo del Biffi, il ristorante che il 15 settembre del 1867 accolse Vittorio Emanuele II in visita alla Galleria a lui intestata, appena realizzata dall’architetto bolognese Giuseppe Mengoni; incontrava gli Scapigliati, e scriveva. Aveva già dato alla luce “Tigre reale” ed “Eros”, che avevano avuto un buon successo; “Storia di una capinera” ed “Eva”; poi una accolta di novelle, “Vita dei campi”, e, presso la casa editrice Treves, il suo capolavoro: “I malavoglia”, che apriva il ciclo dei vinti. Nel 1883 pubblicò le “Novelle rusticane” e “Per le vie” ambientate nel capoluogo lombardo. Quindi eccolo al Teatro Manzoni, con il testo teatrale “Dal tuo al mio”, che però non fu molto applaudito. Da una novella di scene popolari milanesi (“Il canarino del numero 15”) ricavò una commedia in due atti, “In portineria”, recitata per la prima volta al Manzoni il 16 maggio 1885 dagli attori della compagnia Nazionale Olga Lupo ed Enrico Reinach e poi ripresa da Eleonora Duse.
La Galleria
Un’attività fervida in una città che lo aveva catturato subito con i suoi splendori e con le sue miserie, i suoi sconfitti e i suoi vincitori; “la città più città d’Italia”, come scrisse in occasione dell’Esposizione Nazionale del 1881. Verga si guardava attorno, analizzava la società e i suoi mali; raccontava le storie dei disperati: la donna che assume il veleno per amore; la ragazza che chiusa in convento contro la sua volontà muore per scoramento… Nel ’74 scrisse a Capuana: “Io immagino te che venuto improvvisamente dalla quiete tranquillità della nostra Sicilia, te artista, poeta matto, impressionabile, nervoso come me, a sentirti penetrare da tutta questa febbre violenta di vita in tutte le sue ardenti manifestazioni”: una vita tumultuosa che pure non poteva non affascinare anche per le “misteriose ebrezze del lavoro”. Nonostante tutto, lo scrittore amava Milano e conosceva virtù, figure, fatti, situazioni; e annotava: “Lo spettacolo grandioso di un tramonto bisognava andare a vederlo in piazza d’Armi, su quella bella spianata”, che ora non c’è più; e “Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre”.
Porta Venezia una volta raccolta Bertarelli
A Milano Giovanni Verga abitò in piazza della Scala, in corso Venezia, in via Turati (allora Principe Umberto), via Brera, via Borgonuovo 1, case prive di eccessi e bene ordinate come il suo carattere; alle pareti oli e oleografie, fotografie di amici e di eleganti e seducenti signore, il caminetto, un orologio a pendolo… I suoi locali preferiti, oltre al Biffi, il Cova e il Savini, dove, come scrisse Gaetano Afeltra in “Milano amore mio” ogni pranzo e ogni cena consacra le visite nella capitale ambrosiana (è il ristorante che, battezzato nel 1867, “straripa un po’ nella Galleria stessa, estate e inverno, con il suo ‘dehors’ a vetri, secondo un certo gusto parigino…”). Dalla sua abitazione di corso Venezia, a una certa ora del pomeriggio, usciva per la sua solita passeggiata in centro. Fisicamente prestante (“l’era un bel om” e le donne se lo sarebbero conteso volentieri), dice Alberto Lorenzi, sostava per ammirare le caratteristiche dei palazzi, ma anche la vita quotidiana, i personaggi che incontrava, seguendo l’urgenza dello scrivere e la voglia del fare “in mezzo a codesta folla briosa, seducente, bella che ti gira attorno…”, che suscitava il bisogno di isolarsi come se si fosse in una solitaria campagna.
Piazza Duomo

E nacque il libro “Per le vie”, dodici novelle edite da Treves e oggi dalla Libreria Milanese, dove il maestro del Verismo osserva con una certa indulgenza propria di chi non si ferma all’apparenza, al contrasto tra il ricco e il povero; ai fastigi della Milano-bene e all’alterigia della borghesia, alla condizione avvilente degli emarginati. Va oltre. Nella prefazione dell’edizione della Libreria Milanese si afferma che “entrambe le classi, al di là delle condizioni economiche, sono vittime di un destino umano incomprensibile e di un momento storico che di lì a qualche anno maturerà, gettando in una crisi profonda l’intero tessuto sociale”. Primo capitolo del volume, da cui trasse un atto unico per il teatro, “Il Bastione di Monforte”, dove “nel vano di una finestra si incorniciano i castagni d’India del viale, verdi sotto l’azzurro immenso - con tutte le tinte verdi della vasta campagna – il verde fresco dei pascoli prima, dove il sole bacia le frodi (“torrente montano: n. d. a.)”; più in là l’ombra misteriosa dei boschi.
Corso Venezia nel 1866
Fra i rami che agita il venticello s’intravvede ondeggiante un lembo di cielo, quasi visione di patria lontana…”. Improvvisamente compare una coppia furtiva, lei a capo chino, “segnando i passi coll’appoggiare cadenzato dell’ombrellino, e l’ondeggiamento carezzevole del vestito attillato che il sole ricama di bizzarri disegni, mentre l’ombre mobili delle fronde giuocano sul biondo dei capelli e sulla nuca bianca come rapidi baci che la sfiorano tutta. Ed egli le parla gesticolando, acceso dalla sua parola istessa che gli suona innamorata. A un tratto levano il capo entrambi al sopraggiungere di un legno che va adagio, dondolando come una culla, colle tendine chiuse; e la giovinetta si fa rossa, pensando alla penombra azzurra di quelle tende che addormentò le sue prime ritrosie…”.
Piazza Cordusio

     Una foto di Verga(particolare)















E prosegue imbattendosi in un vecchio che andava curvo per la sua strada e alzava il capo soltanto per vedere se la giornata gli avrebbe dato il sole… Nel capitolo “In piazza della Scala” si fanno quattro chiacchiere coi compagni per iscacciare il sonno e i cavalli dormono col muso sulle zampe. Ma quando arriva l’altro (cioè l’inverno: n.d.a.) “l’è duro da rosicare per i poveri diavoli che stanno a cassetta ad aspettare una corsa di un franco con le redini gelate in mano, bianchi di neve come la statua dal barbone, che sta lì a guardare in mezzo ai lampioni, coi suoi quattro figlioletti attorno…”. Restano tante belle pagine su Milano. Ne scrisse anche Capuana.
Sulla Galleria, per esempio: “E’ il cuore della città. La gente vi si affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi, stavo per dire nell’aorta e nelle arterie nel grande organismo, tanto la sua rassomiglianza colle funzioni del cuore è evidente”. Il Verga, sigaro “virginia” tra le labbra, sguardo profondo, baffi cosacchi, moderato nei gesti e nelle parole, calligrafia minuta e nobile, considerato il gentiluomo di Sicilia, rispettato e rispettoso, amici, oltre a Giacosa, Rovetta, Torelli-Viollier, Leone, scriveva sempre in piedi con i fogli appoggiati su un leggio. Aveva anche la passione segreta della fotografia, scoperta nel 1966 quando Giovanni Garra Agosta ricevette dal nipote dello scrittore circa 500 lastre e pellicole, materiale successivamente donato al Museo Immaginario Verghiano di Vizzini, e in seguito oggetto di una mostra itinerante in Italia, che ha riscosso notevole successo. In quelle foto scorrono una varietà di personaggi del mondo pastorale: mezzadri e contadini; e amici dell’autore, compresa una bambina alla finestra. Ma Verga puntò l’obiettivo anche su alcune città dell’amata Lombardia, da Como a Mendrisio, da Intra a Bormio. Il gentiluomo di Sicilia lasciò la città ambrosiana nel 1893, tornando, vecchio e stanco, nella sua Catania, dove, durante quei vent’anni era spesso tornato.






mercoledì 20 giugno 2018

Il baritono Giuseppe Zecchillo


 
FACEVA I QUADRI CON LA PASTA

RIVESTITA DI VERNICE DORATA
 

Gli amici lo indicavano come il

re o il sindaco di Brera, e lui ci

giocava. Alla cerimonia funebre

di un noto rigattiere molto amato

nel quartiere, nella Chiesa di San

Marco fece suonare l’”Ave Maria”

a un violinista della Scala







Franco Presicci

Per gli amici era “il re di Brera” o il “il sindaco del quartiere”. E lui la prendeva a ridere, perché era burbero, ma sapeva anche essere spiritoso. Un giorno lo sorpresi in via Fiori Chiari mentre osservava gli operai che sistemavano la pavimentazione. “Sto controllando i lavori”, esclamò, ovviamente scherzando.     Il baritono Giuseppe Zecchillo era battagliero, ostinato.
Zecchillo a Trani
Il 7 dicembre del ’65, serata di apertura della stagione scaligera, con la “Forza del destino” diretta da Gavazzeni, dal loggione piovvero centinaia di volantini di protesta e i giornali scrissero che la manifestazione era stata pilotata dal cantante, che Giuseppe Barigazzi nel suo libro “La Scala racconta” definisce “il contestatore numero uno del teatro lirico italiano”. Poi nel 1990 entrò nel consiglio di amministrazione della Scala in rappresentanza degli artisti. Sosteneva di essere contro la politicizzazione del teatro lirico. “Voglio restare sulla barricata del sindacato per combattere assieme ai miei colleghi”. Uno spirito effervescente a dispetto del suo aspetto da frate cappuccino. Non entro nel merito delle sue lotte, a volte anche spettacolari, come quella volta in cui per protesta si presentò in piazza tutto vestito di bianco con i titoli dei giornali che parlavano di lui attaccati su giacca e pantaloni. Aveva 270 opere in repertorio e mietuto applausi in tutti i maggiori teatri del mondo. Era generoso, disponibile.
Zecchillo al Circolo della Stampa
Nel gennaio del 2003 morì, in seguito a un incidente stradale, Domenico Lamantea, il rigattiere di Brera amato da tutti i milanesi, fu Zecchillo a far suonare alla cerimonia funebre nella chiesta di San Marco l’”Ave Maria” da un violinista della Scala. Oltre che baritono Giuseppe Zecchillo era autore di quadri realizzati con la pasta: spaghetti, tubettini, mezze maniche, pennette, poi cosparsi di porporina… ottenendo risultati affascinanti. Fece una mostra in un noto ristorante ambrosiano con il titolo “Quadri in oro… Zecchillo”, e calamitò tanti appassionati, compreso Vincenzo Buonassisi, gastronomo ed esperto di musica leggera, che incontrai al Festival di Sanremo nel ’67, anno della perdita di Luigi Tenco e del successo di Annarita Spinaci con “Quando dico che ti amo” (sarebbe arrivata seconda, se la giuria presieduta da Ugo Zatterin, insediandosi, non avesse eliminato la classifica). A proposito della mostra, Buonassisi scrisse che l’autore non cercava successi di moda, anzi sceglieva sempre le strade più difficili, come quando si battè per i cantanti meno fortunati”. E Valerio Dehò: “Le sue opere, in cui la superficie… viene invasa da paste alimentari diverse ricoperte di vernice dorata, sono delle divertite provocazioni che riecheggiano temi e motivi delle avanguardie storiche e della Pop-Art, soprattutto in considerazione dell’elemento consumistico legato agli oggetti scelti. L’uso della vernice enfatizza la provocazione dandole significato di monumento, di permanenza, di durata…”. E lo stesso artista: “Mi ritengo discepolo di Piero Manzoni, non solo artisticamente…”. Andavo a trovarlo spesso nel suo studio di via Fiori Chiari, a Brera. A volte era lui che mi telefonava per mostrarmi un’opera terminata da poco; e di tanto in tanto mi accennava a quelle del suo amico Piero Manzoni, deceduto all’età di 30 anni. “Questo studio era suo e i suoi quadri li ho ricevuti da lui. Quindi nessuno può suscitare dubbi sulla loro autenticità”. Intelligente, colto, aveva sempre mille idee. Un giorno, mentre, seduto dietro alla lunga scrivania senza la presenza della segretaria, parlava dei suoi progetti, e all’improvvido mi disse. “Dammi una mano: sto cercando una casa produttrice di pasta disposta a sponsorizzare una mia esposizione”.
Zecchillo nel suo studio
Lo accontentai ma tutti i pastifici mi risposero, con cortesia, che la pasta è fatta per essere mangiata, non per finire sotto una patina di vernice. Non interessavano ai pastai quelle vedute a volte cosmiche che Zecchillo otteneva accostando, sovrapponendo, incrociando linguine e bucatini. Lo studio era pieno di tele e di cornici. Era un ambiente raccolto, con una scaletta che portava a una stanzetta che prendeva luce da una finestra affacciata sul locale più grande. Lo vedevo spuntare da lì e immaginavo che si accingesse a una predica. Amava la compagnia e invitare gli amici al ristorante. Il locale preferito era il “Rigolo” di largo Treves, vicino al “Corriere della Sera”, dove avemmo come commensale anche la moglie del tenore Giuseppe Di Stefano, che mi parlò del libro che aveva scritto su Maria Callas, promettendomene una copia; e un noto soprano coreano. Una sera a cena eravamo al tavolo da soli. Accanto a noi un noto onorevole che ogni tanto si alzava, salutava un avventore appena entrato e tornava ad accomodarsi, sussurrando all’orecchio della moglie l’identità della personalità. Peppino stranamente cedette alla mia richiesta di aprire la sua biografia, precisando che l’avrebbe sorvolata, riservandosi di rispolverarla con più calma un’altra volta.
Presicci, Zecchillo, il tenore Tagliavini
“Cominciai a dipingere a 18 anni circa, prendendo lezioni private di disegno e pittura per alcuni anni. All’inizio i miei quadri erano figurativi e s’ispiravano al mondo del teatro lirico (camerini di cantanti, orchestre, palcoscenici, palchi... Feci alcune mostre nelle gallerie e nei “foyer” di alcuni teatri. Riuscii a vendere, ma solo nell’ambito del teatro lirico, acquirenti colleghi, scenografi, melomani. “Avevo successo perché bravo? – mi chiedevo – o perché i miei temi interessavano solo quelle categorie? Provai turbamento. Analizzai i miei prodotti e mi accorsi che nelle mie pennellate c’erano qui De Pisis, lì Carrà. Ciò mi fece pensare a Schoemberg, che, come si sa, scrisse che, componendo in maniera tonale incontrava Beethoven, Schuman…”. Proseguì: “Volendo camminare da solo, inventai la dodecafonia. Misi da parte colori e pennelli e presi a incollare sulle tele scarti destinati alla discarica: vecchie chiavi, rasoi, pennelli da barba, tappi, forbici, lattine, che ricoprivo “doro” per esaltare l’oggetto che sorgeva a nuova vita. A poco a poco dal… rottame arrivai alla pasta. Così ho risposto alla tua curiosità”.
Quadro di Zecchillo


Me lo ripetè durante una mostra collettiva nel bar dell’angolo a Brera, dove mi vide fissare un quadro e mi chiese: “Ti piace?”. Si alzò, lo staccò dalla parete e me lo regalò. “A proposito, quali sono stati i tuoi maestri?”. “Mi sono riconosciuto in Tristan Tzara, Duchamp, Fontana, soprattutto in Piero Manzoni …”. Conobbi Zecchillo nel ’64 al Festival Del Clown dedicato a Grock, nel salone delle Feste del casinò di Campione d’Italia, dove con la sua solita eleganza e cortesia il grande Enzo Tortora si prestò a farmi da interprete per l’intervista al leggendario clown Charlie Rivel. Intanto il baritono se ne stava un po’ in disparte, non per superbia. Una mia collega mi domandò: “Sai chi è? Il baritono Giuseppe Zecchillo, un po’ rompi, ma geniale”. Arrivò con la sua “troupe” il telecronista Romano Battaglia e iniziò il suo servizio facendo uscire la testa di un pagliaccio da un trombone. “Bella idea”, commentò Zecchillo”. E avviammo una breve conversazione sulla manifestazione e sull’inventore e organizzatore Pino Corrente che aveva da poco concluso la sua collaborazione con Dino Villani. “Ho quarant’anni – diceva Pino – e voglio intraprendere un percorso da solo”. E già accennava a un Festival dei giocolieri, da ambientare in un teatro di Bergano, presentatore Pippo Baudo. Andò in scena due anni dopo.
Il Bar Giamaica, oggi
Incontrai nuovamente Zecchillo un paio di anni dopo. Motivo, un’intervista per il settimanale “Il Milanese”. Mi elencò subito i cambiamenti che il quartiere andava subendo. “Scompaiono negozi storici, ritrovi … ”; e ricordava figure illustri, che si riunivano al Bar Jamaica , dove Benito Mussolini, allora direttore del “Popolo d’Italia”, ogni mattina si faceva preparare il cappuccino dalla signora Lina. Inaugurato nel giugno del ’21, era dotato di macchina per scrivere e macchina per il caffè espresso. Uno dei clienti più assidui era il critico e storico della musica Giulio Confalonieri, amico dei “clochard” e autore di un libro sulla categoria: “I barboni di Milano”, Nuova Accademia editrice. Di Confalonieri il pittore cantante era amico. Me lo presentò negli anni Sessanta, quando in un altro suo locale, sempre a Brera, aveva scoperto una botola che portava a un ambiente sottostante e per battezzarlo invitò, oltre al musicologo, Nanni Svampa, Roberto Brivio, Lino Patruno e Gianni Magni, non ancora famosi come “Gufi”. Giuseppe Zecchillo non c’è più da qualche anno. Rimasto vedovo, si era iscritto al Circolo Volta, dove mi invitò a cena senza poter mantenere l’impegno.